

Noemi Storzillo
Noemi Storzillo è una scrittrice salernitana, classe 1996, cresciuta tra le atmosfere gotiche dei racconti di Edgar Allan Poe e le visioni oniriche di H.P. Lovecraft.
​Lettrice appassionata fin dalla tenera età, ha scoperto nell’horror il primo amore letterario, un genere che ha accompagnato la sua infanzia e adolescenza e che ancora oggi rappresenta un terreno fertile per la sua scrittura.

Giudizio Giuria
Il racconto "L'altro" di Noemi Storzillo è stato particolarmente apprezzato dalla giuria non solo per la straordinaria padronanza della scrittura che rende piacevole e scorrevole la lettura ma per le atmosfere oscure tipiche dell'universo di H. P. Lovercraft. Il senso di claustrofobia del protagonista incapace di contrastare forze oscure, di altre dimensioni, che ha liberato con le proprie azioni...
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Presentazione Opera
Spinto dalla fede incrollabile nell’esistenza di una divinità dimenticata, un uomo intraprende un viaggio oltre i confini della realtà. Alla ricerca della leggendaria pergamena di Myanshtatur, si ritroverà a mettere in discussione ogni certezza, fino a toccare con mano l’innominabile. Un racconto ispirato alla tradizione lovecraftiana, che ci conduce in un abisso di rivelazioni cosmiche e follia silenziosa, dove la verità si nasconde tra le pieghe del visibile.
L'altro
di Noemi Storzillo
Tutti i diritti riservati all'autore.
Non avrei mai dovuto toccare quella pergamena.
Ora, mentre tutti vivono la propria vita ignorando, io sono rinchiuso in questo polveroso scantinato ad attendere che la morte sopraggiunga come un ambìto sollievo. Potrei decidere di togliermi la vita in questo preciso istante, di recidermi la vena del collo con una vecchia lama arrugginita o di impiccarmi.
Perché non lo faccio?
Perché ho ancora qualcosa da dire al mondo prima di svuotarmi per sempre i polmoni.
Mi sono sempre dibattuto nel corso della mia vita affinché la conoscenza e la cultura fossero alla portata di tutti ma adesso che so, vorrei non sapere. Vorrei tornare a essere un bambino, un embrione, al brodo primordiale e poi ancora indietro a quando nulla esisteva e il nero dominava sul piano dell’infinito. Nascosto sotto un pesante manto di inettitudine, aspetto di poter muovere un passo nella stanza senza dover toccare quella cosa. Ma quella cosa è dappertutto; vicino a me, dentro di me, a ingombrare ogni spazio vuoto e ad avvelenarmi, assorbendo la mia linfa vitale con estrema lentezza. Nulla in questo nauseabondo universo, in cui sono costretto a consumare la mia lugubre esistenza, bramo di più di poter tornare indietro affinché un orbitoclasto assopisca le mie emozioni e mettesse un freno alle mie curiosità. Preferirei perdere qualsiasi capacità cognitiva piuttosto che vivere l’inferno nel quale io stesso mi sono cacciato. Tornerei indietro solo per impedire che le mie mani si posino su quella pergamena, per convincermi di farmi gli affaracci miei, di non mettere il naso lì, dove nessuno dovrebbe scrutare.
Ma fu la sete di cultura e di gloria a trarmi in inganno.
Inspiro ed espiro a fatica, come se un grosso macigno mi stesse premendo sull’addome. Quest’incudine sui miei polmoni sono loro, gli altri. Dovrò lottare contro questo peso affinché l’aria ingurgitata a fatica mi basti a deporre la mia agghiacciante scoperta. Attanagliato da un terrore inimmaginabile, allungo con lentezza un braccio in avanti ma avverto la pressione dell’invisibile sulla mia epidermide accapponata. Il mio cuore è forte ma non sono in grado di sapere fino a quando continuerà a pompare e se avrò il tempo sufficiente per rilasciare le mie testimonianze, uniche nel loro genere. Inspiro di nuovo e a fatica e, mentre i miei occhi iniettati di sangue minacciano di fuoriuscire dalle orbite, con un ultimo sforzo riesco ad attivare il registratore sulla scrivania dinnanzi a me: questa sarà l’ultima cosa che farò prima di abbandonare il mondo terreno.
“27 Novembre 1973
Il sole lentamente calava dietro i pinnacoli di pietra arenaria del Canyon di Palo Duro mentre percorrevo la Route 66. A farmi compagnia una musicassetta dei Pink Floyd e la foto di mio figlio e di mia moglie attaccata al cruscotto. Mentre la guardavo mi dicevo che lo stavo facendo per loro ma era una menzogna: lo stavo facendo per me stesso, per la mia sete di cultura e per la fama.
Ero sulle tracce di quella maledetta pergamena da molto tempo ormai. Non sapevo bene cosa aspettarmi una volta che l’avrei avuta tra le mani ma una cosa era certa: finalmente avrei dimostrato al mondo la sua esistenza. Mi sentivo un ipocrita mentre guardavo la foto della mia famiglia perché sapevo bene che loro, in tutto questo, non c’entravano niente ma forse era solo la scusa che mi stavo rifilando per continuare a investire tempo e soldi su quella ricerca. Durante il tragitto non facevo che ripetermi che presto sarei stato acclamato e lodato dal popolo, che non sarei più stato invisibile e che avrei dimostrato la veridicità delle mie ricerche a tutti.
Le leggende affermavano che chiunque avesse posato le mani sulla pergamena di Myanshtatur avrebbe “aperto gli occhi sul mondo”. Secondo le antiche scritture, gli esseri umani non sono in grado di guardare alla realtà per come essa si presenta perché gli orrori che la compongono sono tali da indurre qualsiasi forma di vita senziente al suicidio. Di conseguenza l’uomo, nel corso dei millenni, ha imparato a convivere con quanto lo circonda grazie a un filtro di percezione, che altera la realtà in cui è immerso, rendendola più appetibile e consentendogli di sopravvivere e di riprodursi per assicurare la continuità della specie.
Mentre viaggiavo a gran velocità mi chiedevo come fosse possibile vivere ogni giorno con la consapevolezza di star sguazzando in una menzogna, immersi in un mondo fittizio e artificioso. Accelerai un po’ di più, pregustando già l’istante in cui la mia pelle avrebbe sfiorato la pergamena e i miei occhi si sarebbero posati sui suoi contenuti proibiti. Avrei abbattuto il filtro di percezione che da sempre mi teneva lontano dalla realtà e sarei stato il primo essere umano a dimostrare al mondo quella scoperta. Sarei finito su tutti i giornali, i libri di storia avrebbero parlato di me e sarei stato ricordato per sempre. Una lacrima solcò la mia guancia destra mentre una strana sensazione mi attanagliava il petto: finalmente sarei diventato qualcuno.
Se solo avessi saputo l’orrore che avrei dovuto affrontare.
Ora, invece, darei qualsiasi cosa per tornare indietro e impedirmi di compiere quel viaggio, anche a costo di morire nella maniera più atroce possibile. Solo adesso comprendo quanto abbandonare questo mondo prematuramente sia una benedizione, e quanto cadere nello stagno della follia, nel quale mi ritrovo ad annaspare ora, sia la tortura peggiore che potesse capitarmi.
Il cielo cominciava a imbrunire quando, seguendo la cartina, mi ritrovai all’imbocco di una strada sterrata che si addentrava all’interno della folta boscaglia. La percorsi con lentezza estenuante, beandomi di quella felicità che precedeva la scoperta, e proseguii fino a quando la vegetazione rigogliosa mi impedì di andare oltre. Spensi i motori, scesi dall’auto e continuai il mio viaggio a piedi, con la cartina in una mano e una torcia nell’altra. Non mi preoccupai dei pericoli che camminare in un bosco al calar del sole, in un luogo isolato, potesse comportare ma marciai senza sosta, spinto da un’eccitazione tale da indurmi ad annullare qualsiasi altro pensiero, abbattendo i limiti della paura, sfociando in terre desolate oltre il muro difensivo che la mente genera per proteggerci dai rischi. Gli alberi frusciavano lenti, attraversati da una leggera brezza estiva, oscillando debolmente sotto quel cielo che andava pian piano scurendosi. Ebbi quasi l’impressione di udire il bosco sussurrarmi parole che soltanto io ero in grado di decifrare, frasi spezzate, respiri corti, come se una voce dalle profondità della terra mi stesse indicando la via. Mi sentii invulnerabile, come se quel tenue alito boschivo mi avvolgesse, sollevandomi dal terreno e lambendomi la pelle con dolcezza, come una mano leggera che carezzava il mio volto conducendomi nel luogo designato.
Pregno di una contentezza indescrivibile, mi lasciai guidare dalla voce della natura fino a quando non giunsi nel posto stabilito, quello che tempo fa avevo segnato sulla cartina sgualcita con una “x” rossa. Quando rinvenni da quello stato di estati, in cui ero divenuto un tutt’uno con gli elementi che mi circondavano, mi ritrovai al centro di una piccola radura circolare, rinsecchita dal sole. Fino a quel momento non mi ero ancora focalizzato su dove potesse essere nascosta la pergamena ma un certo sentimento di delusione cominciò a farsi strada in me. Chissà perché avevo creduto che l’oggetto dei miei desideri si sarebbe palesato dinnanzi ai miei occhi nell’istante in cui fossi giunto sul posto. Camminai in lungo e in largo in quel cerchio di erba secca, cercando di mantenere la calma.
“È qui, non può essere altrimenti” continuavo a ripetermi mentre le gambe mi costringevano a girare in tondo senza tregua.
“È qui da qualche parte, lo sento” annunciai a voce alta, come se aumentare il tono servisse ad avvicinarmi all’obiettivo. Sentivo la rabbia montare dentro me inarrestabile e le tempie mi pulsavano forte, impedendomi di mettere a fuoco l’ambiente circostante che ora appariva sfocato, confuso. Le mani avevano preso a sudare, le gambe a tremare in maniera incontrollata. Tutta la felicità che mi aveva pervaso qualche istante prima stava svanendo, lasciandomi svuotato di ogni emozione positiva. Eppure, sapevo bene che quel viaggio avrebbe potuto rivelarsi fallimentare. Tutti continuavano a ripetermi che avrei sprecato tempo ed energie inutilmente ma, da qualche parte nei meandri della mia mente, io ci credevo.
D’un tratto smisi di camminare, sentendo i miei muscoli e le ossa intorpidirsi e, incapace di sostenere il mio stesso peso, caddi in ginocchio al centro di quel cerchio rinsecchito e scricchiolante. Abbassai il capo, abbattuto da un turbinio di emozioni contrastanti, afflitto e sull’orlo di una crisi di nervi e fu in quell’istante che scorsi qualcosa tra i fili d’erba ingiallita. Accostai con lentezza la mano verso quella sporgenza che, poco dopo, scoprii essere un gancio metallico semi arrugginito. Divenni d’un tratto silenzioso e l’unica cosa che riuscii a udire fu il pulsare sempre più rapido del mio battito cardiaco. Quando le mie dita si strinsero attorno alla superfice ruvida del gancio, ispirai riempiendomi i polmoni d’aria. Eccitato, aprii quella botola di legno consunto e immediatamente un pungente odore di muffa mi penetrò le narici. Incurante di qualsivoglia pericolo, mi calai nel buio pesto facendomi strada con la torcia. Le scale che mi condussero verso il fondo crepitavano a ogni mio passo, quasi cedendo sotto il mio peso. Poco dopo mi scontrai con un materiale più stabile: capii dunque di aver raggiunto il fondo. Mi ritrovai circondato da strette pareti fetide e ammuffite, senza essere in grado di scorgere nulla se non uno stretto cunicolo scavato nel muro ai miei piedi. Mi inginocchiai, ritrovandomi a poggiare i palmi su un terriccio umido e melmoso e piano e mi intrufolai al suo interno, strisciando come un verme. Il condotto era gremito di ragnatele e di insetti e, via via che mi addentravo nelle profondità di quella parete, l’odore di muffa andava intensificandosi sempre di più. Nonostante soffrissi di claustrofobia non smisi mai di avanzare perché il ritrovamento della pergamena era, per me, più importante di qualsiasi altra cosa al mondo. Sarei potuto morire lì sotto, solo e senza nessuno a soccorrermi ma l’adrenalina era tale da annebbiare ogni senso. Sentivo di essere vicino alla meta, annusavo la presenza della pergamena come se il mio olfatto fosse in grado di percepire il suo odore in maniera distinta tra la molteplicità di miasmi che mi avvolgevano e che mi penetravano i vestiti e l’epidermide. Strisciai per un tempo che parve infinito prima di giungere in un antro più largo, grande abbastanza da permettermi di stare ritto sulle mie ginocchia. Proprio lì, di fronte ai miei occhi increduli, faceva capolino un antico bauletto di legno scuro che mi accinsi ad aprire con disarmante lentezza. Il timore di non trovare al suo interno la tanto ambita pergamena mi stava logorando, inducendomi a uno stato di pazzia. Mentre con una mano stringevo la torcia tremolante, con l’altra aprivo il baule. Puntai subito la torcia al suo interno e finalmente la vidi: un rotolo di carta logora tenuto saldo da un vecchio nastro annerito, la pergamena. Gli occhi si inumidirono all’istante ora che l’oggetto delle mie ricerche si trovava a pochi centimetri dalla mia mano. Sospirai ancora una volta, consapevole dell’esperienza che stavo per subire, impaurito all’idea di osservare un mondo del tutto nuovo, la realtà vera oltre il muro della percezione che da sempre mi costringeva a vivere nella menzogna.
Il mio braccio si allungò instabile verso quella carta consumata dal tempo ed ecco che la mia pelle la sfiorò leggera prima che le dita l’afferrassero. Ciò che provai non so esprimerlo a parole. Mi ritrovai in uno stato di pura estasi.
Se solo avessi saputo cosa quell’azione avrebbe comportato.
D’un tratto, prima ancora di riuscire a sfilare via il nastro, e di contemplarne i contenuti, la vista mi si annebbiò e fui scosso da un profondo capogiro. Un attimo dopo svenni.
Quando riaprii gli occhi, faticai a mettere a fuoco ciò che mi si parava dinanzi. La botola, la puzza di muffa e la pergamena mi ritornavano alla mente come un lontano ricordo, un sogno evanescente. Ero nudo, disteso nel letto di casa mia a fissare il soffitto e mi sentivo stordito e confuso. Mi sollevai con lentezza e mi avviai verso la cucina a prendere un bicchiere d’acqua, e intanto mi sforzai di rimettere insieme tutti i ricordi che conservavo di quell’avventura. L’intontimento era tale da non permettermi di ragionare con lucidità, rendendomi incapace di distinguere quanto accaduto dal sogno. Accostai la mano alla maniglia del frigo quando uno scossone mi fece cadere a terra. Mi guardai intorno stranito e, non vedendo nessun’altro, mi sollevai credendo di essere semplicemente vittima di un capogiro. Respirai piano e mi avvicinai di nuovo al frigo. Questa volta avvertii qualcosa colpirmi con violenza al lato destro dell’addome e subito dopo al sinistro. Mi aggrappai alla maniglia per non ritrovarmi di nuovo disteso al suolo poi voltai la testa in ogni direzione, attanagliato dalla paura. Pensai si trattasse di uno stupido scherzo messo in scena da mio figlio o da mia moglie ma nessuno dei due era in casa. Il fiato divenne corto e gli occhi sgranati ruotavano in ogni direzione alla ricerca di qualunque cosa potesse avermi toccato. Ovunque mi girassi non vedevo che il vuoto intorno a me così compresi di essere troppo stanco e forse la testa stava giocandomi un brutto scherzo. Con una punta di timore, lasciai la maniglia con l’intenzione di ritornare a letto ma fu in quell’istante che accadde qualcosa di molto strano. D’improvviso avvertii una forte sensazione di oppressione, come se mi trovassi stretto in una morsa che sempre più si stringeva intorno alle mie membra. I miei arti erano immobilizzati da mani invisibili, così come il mio capo, e un peso enorme gravava sul mio petto e sull’addome togliendomi il fiato. Battei lei palpebre cercando di mettere a fuoco l’ambiente circostante e, ogniqualvolta li riaprissi, scorgevo delle figure palesarsi intorno a me. Quelle immagini, inizialmente sfocate e prive di forma, stavano delineandosi sempre più in fretta dinnanzi ai miei occhi increduli. L’orrore stava prendendo forma in un agglomerato di esseri deformi e mostruosi, con volti distorti in continuo mutamento e lunghe mani che si protendevano sul mio corpo, schiacciandomi, impedendomi di muovere un solo passo in avanti. Ognuno di quegli esseri immondi mi fissava con ghigno mefistofelico in volto, nutrendosi della paura che mi assoggettava, accrescendo la loro dimensione con l’aumentare del terrore che mi schiacciava come un macigno.
Con immenso sforzo, e socchiudendo gli occhi, mossi un passo e poi un altro in avanti dirigendomi verso lo scantinato, lo stesso in cui oggi depongo le mie aberranti testimonianze. Incapace di muovermi liberamente, mi lasciai cadere dalle scale, pregando di ritrovarmi sul fondo della cantina, lontano da quelle orrende mostruosità, lontano da quelle immonde presenze. Il mio tentativo di fuga si rivelò vano perché quelle putride escrescenze demoniache si sporgevano da ogni dove, riempiendo ogni spazio vuoto intorno alla mia persona e rendendomi difficile qualsiasi movimento. D’un tratto tutto mi tornò alla mente, dalle mie estenuanti ricerche alla scoperta della pergamena di Myanshtatur, al ritrovamento della stessa sul fondo della botola.
Come mi ero ritrovato a casa?
Dov’era finita la pergamena?
Era davvero questa la realtà?
Il mondo in cui ero cresciuto era sempre stato gremito di mostruosità che riempivano lo spazio vuoto?
Molteplici erano le domande che affollavano la mia mente ma nessuna risposta fu in grado di colmare quel senso di orrore e di inadeguatezza. Il mio pensiero corse alla mia famiglia, a mia moglie e mio figlio che ignari trascorrevano le loro giornate immersi in quella squallida e ripugnante melma chiamata realtà. Pensai che avrei dovuto far qualcosa per loro, che avrei dovuto salvarli, impedire che quelle abominevoli escrescenze infernali potessero continuare a premere contro i loro corpi mentre, inconsapevoli, vivevano quell’esistenza fittizia, ben lontani dalla verità che ora si palesava dinnanzi al mio sguardo in tutta la sua terribile concretezza.
Fu la visione di quelle creature ghignanti a suggerirmi cosa fare. Sommerso da quelle opprimenti mostruosità, attesi il rientro dei miei cari sotto le scale con una vecchia accetta arrugginita stretta tra le mani. Fu il mio piccolo a ricevere il primo colpo, un unico colpo mortale sulla nuca. Non ebbi alcun ripensamento quando sollevai la lama verso l’alto e la lasciai cadere sul suo tenero collo di bambino. Mi assicurai di metterci tutta la forza possibile affinché un unico colpo bastasse a togliergli la vita.
Lui non poteva saperlo ma quel colpo d’accetta lo aveva salvato.
Se solo avessi avuto un’ultima occasione per dirgli “ti voglio bene”. Se solo avessi potuto soffermarmi nei suoi occhi innocenti per qualche istante, avrei avvertito meno il dolore lancinante della fitta che mi stava trapassando il petto da parte a parte.
Se solo…
Sospirai osservando a fatica il suo corpicino inerme, circondato da una pozza di sangue scarlatto che ancora zampillava dalla ferita. I suoi occhi erano semi aperti e mi chiesi se in quelle pupille vitree fosse rimasta impressa la mia immagine di assassino, se mio figlio avrebbe trascorso l’eternità rivivendo quell’immagine infinite volte, condannato per sempre a morire per mano di suo padre, dell’unica persona di cui avrebbe dovuto fidarsi.
Trascorsero pochi istanti prima che anche mia moglie, insospettita dal silenzio di nostro figlio, si precipitasse giù dalle scale di corsa, scorgendo dall’alto il suo corpicino senza vita. Non le lasciai il tempo di proferire parola perché, giunta al penultimo scalino, la mia lama si conficcò nel suo cranio più e più volte, fino a quando non ebbi la certezza che fosse morta. Osservai dall’alto la mia famiglia massacrata; la loro linfa vitale lentamente abbandonava quei pallidi corpi, cospargendosi al suolo, mescolandosi con la polvere dello scantinato mentre quelle orride presenze ci sguazzavano dentro, ricoprendosi del loro sangue, rinvigorendosi grazie a esso. Tremante lasciai l’arma del delitto cadere rovinosamente al suolo, riempiendomi le orecchie col suo suono metallico. Sollevai appena lo sguardo su un vecchio specchio scheggiato affisso alla parete di fronte e mi soffermai sul mio volto sconcertato, sporco del sangue di mio figlio e di mia moglie. Quelle orrende creature ghignavano nello spazio vuoto e mi osservavano senza battere ciglio. Non emettevano alcun suono nonostante le loro bocche fossero spalancate ma ebbi comunque la sensazione di udire le risate di scherno provenire da quei volti sinistri e infernali, plasmati sulla forma delle paure e delle angosce che mi attanagliavano le membra. Quanto più la loro presenza ampliava il mio terrore, tanto più si moltiplicavano e accrescevano le loro dimensioni fino a soffocarmi, impedendomi di avanzare o retrocedere. Mi ritrovai immobile, in piedi al cospetto di un massacro di cui io ero l’unico responsabile, complici le figure che infestavano il vuoto. Non potevo e non dovevo permettermi di piangere perché quell’omicidio li avrebbe salvati dall’orrore della realtà. Spero che quanto detto basti a convincere chiunque altro sia in cerca della pergamena, di lasciar stare e continuare la propria esistenza vivendo nel rifugio che i nostri occhi hanno creato per tenerci al sicuro”.
Allungo una mano incerta sul registratore di fronte a me per bloccare la registrazione. Ansante, la ritraggo con lentezza, schiacciato da quella nera pestilenza che mi soffoca e mi impedisce di espandere i polmoni. E mentre gli altri mi osservano con occhi giganteschi, in cui è possibile scorgere tutto il buio dell’eternità che mi attende famelica, allungo le dita sulla pistola accanto al registratore. Quando percepisco il metallo freddo dell’arma sotto le dita, un brivido mi accappona la pelle e il viso si cruccia in un’espressione disperata. Mi sporgo verso sinistra con sguardo basso, osservo per l’ultima volta i cadaveri di mia moglie e di mio figlio, uno di fianco all’altro, il braccio di lei sulla sua schiena, condannati in un eterno abbraccio. Per un solo istante li immagino sorridenti sotto un cielo limpido, li vedo correre verso di me a rallentatore. Io spalanco le braccia per accogliere il loro entusiasmo e per esprimere con quel gesto tutto il mio affetto ma, quando mi raggiungono, attraversano il mio corpo come fossi un’ombra e continuano a correre lungo un infinito sentiero illuminato dai raggi solari. E io li lascio andare perché non è quello il mio posto. Quando rinvengo da quella visione celestiale, che per un attimo mi fa dimenticare degli orrori che mi circondano, ricordo che è quello il mio inferno, condannato per sempre a pagare il prezzo della curiosità.
Volto la testa alla scrivania poi fisso l’arma che stringo nella mano destra, vedendo in quel pezzo di ferro scuro l’unica via di fuga dal marciume che mi ingloba e mi sovrasta. La mia immagine si riflette sul metallo lucido ma ciò che scorgo non è un volto umano, non è la faccia con cui mi sono sempre identificato. In preda a una terribile consapevolezza, mi sollevo in fretta dalla sedia spalancando gli occhi.
Ora non sento più niente.
Con passo lento e incerto mi trascino verso lo specchio affisso alla parete e mi osservo. L’uomo che conoscevo, o che credevo di conoscere, non esiste più. Al suo posto una massa scura e deturpata, ricoperta di pustole e bitorzoli, fa capolino nella lastra scheggiata. La sua bocca è una fessura deforme che attraversa la testa da parte a parte, spalancata a mostrare una fila di denti neri. I suoi occhi due enormi voragini nere come la pece, che vanno allargandosi secondo dopo secondo, attimo dopo attimo fino a scoprire al suo interno la profondità degli abissi. Il corpo muta, plasmandosi di continuo in ammassi senza forma, accrescendo e diminuendo le sue dimensioni, trasformandosi in mostruosità sempre più atroci e orripilanti.
L’uomo che ero stato un tempo aveva cessato di esistere, o forse non era mai esistito davvero.
Io sono come loro, sono sempre stato come loro: una putrida e infernale escrescenza, l’orrore strisciante, l’ombra che nel buio sogghigna, il seme della follia, l’incubo ricorrente che ti uccide nel sonno.
Io sono l’altro