

Patrizia Birtolo
Classe ’68, laurea con lode in lingue e letterature straniere conseguita nel novembre 2003 presso l’Università IULM di Milano, insegno. Sono sposata, ho due figli.
Nel 2006 il primo racconto per CutUp Edizioni. Dal 2006 al 2011 sono finalista in svariati concorsi nazionali: A fine 2018 riprendo ad occuparmi attivamente di scrittura Seguono dal 2019 ad oggi le vittorie nella sezione narrativa in svariati altri concorsi letterari

Premi e riconoscimenti
La mia prima raccolta personale è Qualcosa di rosso, uscita nel gennaio 2012 per le Edizioni Montag che vince il Premio Residenze Gregoriane.
Nel luglio 2021 esce per CIESSE edizioni il romanzo breve Cime (di rapa) tempestose che vince al Premio Letterario Internazionale “Città di Sarzana” (2022) e il Premio Speciale “Scrivere Donna” del Premio Letterario “Amarganta” (2023)

Giudizio Giuria
L’Opera trova la sua identità come romanzo gotico presentando elementi sovrannaturali, una protagonista femminile e un’ambientazione di fine Ottocento in una prestigiosa magione in Irlanda. La scrittura, fluida e lineare, è a completo servizio della storia permettendo al lettore di calarsi, insieme alla protagonista, in quella nuova dimensione solo in apparenza irreale...
Il sentiero delle Siepi Oscure
di Patrizia Birtolo
Tutti i diritti riservati all'autore.
Dopo settimane di benevole conversazioni nei pub e amichevoli informazioni elargite con sorrisi di mite condiscendenza, mi sentivo nell’isola ormai di casa. Ma era bastato oltrepassare il border di poche miglia e il clima era cambiato. Le facce chiuse, le strade vuote e il sole dileguato.
Avevo ancora varie ore di luce per raggiungere The Dark Hedges e il suo viale di faggi secolari che formavano un tunnel di squisita tetraggine. Attirava me e fin troppi altri turisti, cui si aggiungevano gli appassionati di cruente saghe fantasy decisi ad ammirare con i loro occhi lo sfondo di questa o quella puntata.
Ero partita con l’idea di stabilirmi per qualche tempo in Irlanda, all’accanita ricerca d’una località abbastanza stimolante. Curiosando in rete, m’era apparsa l’immagine del tunnel di faggi i cui rami s’abbracciavano da un lato all’altro della strada. Me ne ero innamorata. Ora percorrevo la Bregagh Road nei pressi di Armoy, diretta a Gracehill House. La macchina era a noleggio. Ero già stata in Irlanda in precedenza con la mia auto, ma conservavo un pessimo ricordo del passaggio sul traghetto; perciò, mi affidai a un volo e quindi a un rent-a-car una volta giunta sul posto.
L’aria sonnolenta del primo pomeriggio, per quanto fosse giugno, bastava a intorpidire l’automobilista più accorto. Aria condizionata e radio m’aiutavano a non cedere al torpore. Una stazione trasmetteva reels allegri e orecchiabili, tenendomi compagnia da qualche miglio. Indicazioni disseminate lungo la strada davano Gracehill House sempre più vicina. Il viale alberato che tanto cercavo era il biglietto da visita dell’austera dimora.
All’imbocco delle Dark Hedges mi accorsi d’una piazzola di sosta a lato della strada. Ci si poteva fermare a fare foto dai punti con le inquadrature migliori. Il viale pullulava di turisti in magliette colorate, una trentina di persone mosse tutte dallo stesso intento: contendersi l’un l’altro lo scorcio migliore. Sbuffai. Mi sarei spinta verso Gracehill a piedi per staccarmi da quella confusione. M’incamminai in direzione della dimora, ma fatti pochi passi uno schianto mi prese alla sprovvista.
Avvertii un dolore bruciante alla tempia destra, le ginocchia cedettero e caddi faccia a terra.
Poi il buio mi inghiottì come un gorgo.
L’ultimo pensiero fu per l’auto accostata pochi metri indietro: ora come avrei fatto a restituirla?
Dopo lo schianto mi svegliai più volte in una stanza sconosciuta, in un letto che non sentivo familiare. Non era una stanza d’albergo di quelle occupate fino allora. Grandi fiamme arancioni ardevano in un camino poco distante, e il dolore atroce alla testa a ogni tentativo di movimento mi precipitava di nuovo, ancora e ancora, nel gorgo buio…
Riaprii gli occhi una bella mattina di sole. Un ometto in abiti dalla foggia antiquata, appollaiato su una poltrona accanto al mio letto, russava, facendo sussultare il monocolo in precario equilibrio sul naso.
Una solerte signora in cuffia inamidata s’affaccendava lì attorno.
Vedendomi sveglia si portò entrambe le mani alla bocca, come stesse assistendo a un evento miracoloso.
«Dottor Finnegans, dottor Finnegans!» disse la donna scrollando l’ometto che, a quelle parole, si limitò a cambiare posizione in poltrona. La donna accentuò l’energia impressa allo scrollone.
L’ometto trasalì, drizzandosi in piedi e asserendo con vigore: «Perbacco, la cura ha funzionato!» seguito da un concitato «chiamate Lord Stuart!» all’indirizzo della signora. La cuffia bianca sparì e mi ritrovai l’ometto a tre centimetri dal naso.
Ero debole, confusa, incapace di articolare la frase più semplice. Esalai solo un flebile: «E la macchina?»
L’ometto aggrottò le sopracciglia. Tentai di sollevarmi. Milioni di spilli mi trafissero la nuca e ricaddi sul cuscino. Sentivo le forze venir meno, chiusi gli occhi un istante.
«Shhh, shh. Non si agiti, non compromettiamo la ripresa» sussurrò con voce chioccia. L’accento era insolito, con qualcosa che sfuggiva alle mie conoscenze d’inglese.
Mi guardava con bonaria comprensione facendomi sentire al sicuro.
«Lord Stuart sarà qui a momenti» disse prendendo fra le sue mani una delle mie e dando affettuosi buffetti al dorso.
Fu allora che un pensiero mi colpì con la bizzarra precisione dei sogni.
Quella mano non era la mia. Io non avevo mani così.
Le mie erano di carnagione più scura, quella che stringeva l’ometto era bianca come il latte. Anche da quella distanza, che il mal di testa rendeva insormontabile, appariva punteggiata d’efelidi, e io non le ho mai avute.
Dita lunghe, affusolate, unghie curate.
Io ho sempre avuto unghie cortissime, dalle pellicine un po’ smangiate.
Di chi era quella mano?
Solo la certezza d’essere al sicuro, adesso, mi consente di ripercorrere l’angoscia di quelle settimane.
Col pretesto di non ricordare nulla, all’indomani del mio risveglio implorai Finnegans di dirmi chi fossi e spiegarmi che diamine ci facessi lì.
Di sicuro le domande poste stavolta erano più plausibili del mio primo interrogativo “E la macchina?”, quesito che Mrs. Cuffia Bianca, come ribattezzata fin dall’inizio, s’era premurata di placare portando al mio capezzale un arcolaio, pensando fosse quello l’oggetto reclamato.
Il Dottor Finnegans mi riepilogò le circostanze che mi tenevano confinata in quel letto a baldacchino. Il mio nome era Margaret Stuart, primogenita di Lord James Stuart, proprietario di Gracehill House, promessa sposa del proprio cugino, Lord Benjamin. A dispetto del nome, capace d’evocare un che di biblico e fanciullesco, Benjamin era l’infame che aveva insistito per farmi fare un giro sul dono di nozze: uno stallone purosangue lungi dall’apprezzare d’esser cavalcato all’amazzone dalla sottoscritta.
Il cavallo s’era lanciato a un galoppo sfrenato imboccando il sentiero delle Siepi Oscure. Solo la radice sporgente di uno dei faggi fatti piantare da mio padre l’aveva convinto a interrompere la sua folle corsa, sbalzandomi di sella.
Thunder se l’era cavata senza danni, a me era andata un po’ peggio.
Da due settimane giacevo in quel letto facendo preoccupare tutta Gracehill House e agitandone gli abitanti con le mie strampalate domande.
Pregai Finnegans d’avvicinarsi al mio orecchio. Con calma, come fosse un bimbo assai duro di comprendonio, gli feci presente che non ero quella che tutti credevano fossi.
Non avevo vent’anni, non ero irlandese e neppure gracile e bionda.
Gli spiegai chi ero, di dove venissi. Con estrema pazienza glielo sottolineai a più riprese: non solo non appartenevo a quei luoghi, ma neppure a quella epoca.
Finnegans aggrottò le sopracciglia, ora impallidendo, ora arrossendo, talvolta tossicchiando o schiarendosi la voce. M’ascoltò fino in fondo senza interrompere. Quando, spossata, m’abbandonai sui cuscini e finsi di dormire, lo sentii prendere da parte Mrs. Whitecap e, in un angolo della grande stanza bofonchiare con aria grave frasi smozzicate. Riuscii appena a cogliere le espressioni: caso molto complicato, danni gravissimi e riposo assoluto. Aprii le palpebre a fessura e lo vidi scuotere la testa più volte mentre fissava il fuoco che ardeva nel camino.
Le settimane successive trascorsero in un limbo grigio, morbido, estenuante. Finnegans mi prescrisse una dieta liquida, brodaglie di verdure e altri intrugli di poca consistenza.
Il risultato? La mia costituzione già esile cominciò a virare allo smunto, per non dire scheletrico. Ci sarebbe voluta una buona settimana di porzioni di patate e soprattutto stufato, allora sì avrei potuto raccogliere le forze, ringraziare l’intera brigata, togliere il disturbo, riprendere la mia strada.
Ma ero debole. L’unica volta che Mrs. Whitecap contravvenendo con tremenda perplessità agli ordini del Dottore mi aiutò a scendere dal letto e muovere qualche passo, a momenti le svenivo tra le braccia.
Mi rimise sotto le coperte in tutta fretta, sgridandomi come una bambina irragionevole, accusandomi di volerla far finire in un guaio più grosso di noi due messe insieme, e tutto per la mia cocciutaggine.
Rassegnata, mi lasciai mettere a letto.
Per la prima volta dall’inizio di quella assurda avventura versai qualche lacrima, poi scivolai di nuovo in un sonno torbido, che non aveva nulla di ristoratore.
A inizio estate ero abbastanza in forze da poter lasciare la mia stanza. Non mi era consentito uscire da Gracehill House, le uniche visite che potevo ricevere erano quelle di mio padre, Lord Stuart, e di Benjamin. Avrei dato qualsiasi cosa perché le prime si intensificassero e le seconde cessassero del tutto. Finnegans una volta a settimana notava i miglioramenti e se ne rallegrava di cuore. Purtroppo, questi si limitavano al fisico.
A detta di tutti i miei discorsi erano sempre più sconclusionati.
Avevo pregato Mrs. Whitecap di rendermi i vestiti indossati al momento dell’incidente, ma l’avevo turbata. Alla fine s’era risolta ad ammettere come fossero stati bruciati per ordine di Benjamin, il quale non aveva piacere di mostrare a Lord Stuart quanto fossero imbrattati di sangue in seguito alla caduta. Chiesi nuovamente della macchina.
Mi fu detto che oltre all’arcolaio, a un telaio per ricamo, a una spinetta che occupava un angolo del salottino da fumo e a un cavalletto per dipingere io di macchine non ne possedessi altre.
Mrs. Whitecap mi chiese più volte, con affettuosa indulgenza, d’aiutarla a capire a quale strano marchingegno mi riferissi.
Decisi di lasciar perdere, o mi avrebbero rimesso Finnegans alle calcagna.
Intanto però, vuoi la stranezza delle circostanze (mai avuto incubo così lungo e realistico!) vuoi la tenaglia della solitudine, iniziavo a gettare le armi. La mia vecchia vita stingeva nel ricordo come un sogno bislacco fatto all’alba.
Cercavo d’aggrapparmi a qualcosa, ma niente m’aveva seguito in quel perturbante viaggio oltre lo specchio. Il corpo in cui mi muovevo non era più lo stesso, nulla attorno mi era minimamente familiare.
Mi sentivo vittima d’una aberrazione, imprigionata in una bolla lungo la linea del tempo. La mia vecchia vita s’era interrotta nel sentiero delle Siepi Oscure ed ero precipitata in un pozzo profondo secoli, dal quale non sapevo più come riemergere.
O forse ero morta, e quello era il mio inferno.
La prima evasione fu facile da attuare, ma d’esito infelice.
Mrs. Whitecap s’era troppo concentrata nella lucidatura d’un candelabro e ne approfittai per raggiungere il parco di Gracehill House fino al limitare del boschetto retrostante l’antica dimora.
Nel labirinto di bosso cercai di far perdere le mie tracce, ma riuscii soltanto a vagare disorientata graffiandomi viso, mani e vestiti.
Il goffo tentativo di fuga mi causò una pesante reprimenda da parte di Finnegans, un accorato discorso di mio padre e una sgradita visita di Benjamin.
Per mia fortuna, dopo l’incidente il mio promesso sposo s’era stancato presto di sentirmi blaterare riguardo a macchine e identità smarrite. Ormai da tempo con la scusa d’alcuni viaggi d’affari aveva diradato le visite.
La sua richiesta la vissi come un’ingiusta punizione per il mio impulso fallito.
Fin dal primo incontro, Benjamin mi suscitò una ripulsa oggettivamente inspiegabile. Era un bell’uomo, fisico asciutto, alto, spalle larghe. Un viso piacevole, lineamenti decisi. Quel tipo di bellezza irlandese giocata su contrasti gradevoli: capelli scuri e occhi blu.
Niente nel modo di fare lo squalificava, eppure…
Qualcosa nel suo sguardo. Una durezza, un’indifferenza mascherata da gelida cortesia. Non un po’ di partecipazione, o preoccupazione, per quanto successo. M’era capitato più volte, invece, di sentirlo borbottare tra sé sulla felice evenienza che Thunder ne fosse uscito illeso. Una zampa spezzata e l’avrebbe certo dovuto abbattere anziché rivenderlo senza rimetterci.
Nel corso d’una delle nostre forzate conversazioni gli feci notare che io, sarei potuta morire. Si voltò di scatto sibilando un tagliente: “Ma ora state bene, non è così?”.
Aprii bocca, poi la richiusi: non meritava lo sforzo d’una replica educata.
Quel giorno, dopo l’episodio del labirinto, lo aspettavo seduta nel salottino da fumo con Francine, la domestica più giovane di Gracehill House.
La ragazza stava apparecchiando per servirci il tè.
Era nipote di Mrs. Whitecap, ma non aveva la sua pazienza, né il suo bonario ottimismo, né le capacità d’immedesimazione. Mi toccava chiederle le cose più e più volte. Lei reagiva stizzita, assolvendo ai compiti richiesti in modo frettoloso, approssimativo e di malagrazia. Non avevo osato riferirlo a mio padre per non ferire i sentimenti di Mrs. Whitecap, ma quell’atteggiamento cominciava a pesarmi.
Non capivo perché mi detestasse a quel modo. Di certo il suo malanimo si riferiva a qualche attrito intercorso con la vecchia Margaret, quella che viveva a Gracehill House prima dell’incidente, non a me.
Appena entrato Benjamin, intercettai un moto di sorpresa in Francine. Accennò un inchino, si dileguò lasciandoci soli. Forse fu la mia immaginazione, ma colsi un muto cenno d’intesa tra i due. Sulle prime non diedi peso, ma dopo poco mi dovetti amaramente ricredere.
Ci fu un cortese preambolo in cui ci aggiornammo a vicenda su stato di salute e condizioni del tempo, poi Benjamin mi sedette accanto sul canapé. Badò d’accomodarsi senza che ci fosse contatto tra noi, della qual cosa lo ringraziai mentalmente.
Quindi iniziò ad affondare il coltello nella piaga.
«Margaret, ditemi, perché? Perché questo comportamento così innaturale, illogico? Vi era stato detto di non lasciare la casa e voi vi siete avventurata nel parco, da sola. Siete ancora troppo debole e…»
«Sentivo il bisogno d’una boccata d’aria» risposi in tono incolore.
«…E siete finita col viso e le mani sfregiati dai rovi. Non vi siete già messa abbastanza in pericolo?»
«Io?! Non ricordo sia stata una mia idea quella di montare Thunder!»
«Ancora? Mi sono mortificato mille volte per quanto successo, eppure non basta, è evidente. Mi chiedo se rimangano i presupposti per un felice epilogo del nostro fidanzamento. I vostri sentimenti sono mutati, lo sento. La Margaret d’un tempo avrebbe saputo apprezzare un dono generoso, scusandosi per la sua imperizia nel cavalcare anziché rinfacciarmi colpe inesistenti. Mi avevano assicurato che quel cavallo avesse un temperamento sì esuberante, ma non difficile. Voi montate fin da bambina, eppure quel giorno sembrava foste in sella per la prima volta in vita vostra…»
Alzai le spalle, torsi il viso in direzione della vetrata che illuminava quell’angolo di saletta.
«Margaret?»
Restai immobile.
«Peggy? Desiderate ancora sposarmi?»
Avrei voluto urlargli il mio no, ma desideravo fuggire da Gracehill House con tutte le mie forze, e Benjamin rappresentava una via di fuga.
Accidenti, cominciavo sul serio a ragionare con una mentalità da inizio ‘800.
Tesi la mano verso la tazza di tè, più per evadere la necessità di una risposta che per vera sete. Mentre la portavo alle labbra, Benjamin s’alzò di scatto dal divanetto. Ripenso con orrore a quell’istante.
Una goccia di tè, una sola goccia, cadendo dalla tazza che aveva ondeggiato per via del mio tremore e del movimento repentino di Benjamin, cadde sul divanetto e, bagnandone il tessuto, produsse un forellino fumante che andava allargandosi, divorando la stoffa.
Come se una mano invisibile avesse deciso di spengere il proprio sigaro sul rivestimento di cinz.
Paralizzata, soffocai un urlo in gola. Poi tirai il tè bollente su una pianta ornamentale poco distante. La pianta s’accasciò, ingiallì in pochi secondi. Cominciai a tastarmi le vesti per capire se qualche schizzo m’avesse colpito e stesse per mangiarmi il tessuto degli abiti fino alla carne.
Benjamin si voltò, sul viso un’espressione indicibile.
Rabbia, dispetto o cos’altro?
So solo che infilò la porta. M’abbandonò mentre singhiozzavo a dirotto sul canapè.
L’accaduto scosse tutta Gracehill House.
Mio padre non si dava pace, Mrs. Whitecap era tormentata da funesti pensieri.
Tra la servitù correva voce avesse litigato in maniera furibonda con Francine, prendendola per i capelli, schiaffeggiandola per farle sputare fuori tutto sul tè avvelenato. Finnegans si rammaricò non fosse rimasta neppure una goccia da analizzare. E Benjamin era offeso.
Per la seconda volta s’era sentito sotto accusa. Si diceva convinto pensassi fosse lui il responsabile, non si capacitava di certe mie conclusioni.
Io temevo per la mia incolumità: Thunder m’aveva fortuitamente graziato, ma era un puro miracolo non essermi ritrovata le viscere ustionate.
Dovevo andarmene, ma mai avrei immaginato che un nuovo tentativo di fuga sarebbe stato tanto spaventoso da farmi preferire la morte al restare lì, a Gracehill House.
Scelsi una notte senza luna. Ogni elemento volgeva a mio favore: mio padre – l’uomo che tutti ritenevano tale – s’era recato presso i Fitzgerald, nostri conoscenti con cui era in cordiali rapporti. Il cocchiere l’aveva portato da loro, una volta arrivati lo avrebbe atteso fino a serata conclusa.
Francine e le cuoche erano a una festa danzante in un borgo vicino.
Io e Mrs. Whitecap ci eravamo tenute compagnia per tutta la sera.
Intorno a Gracehill House era scesa una coltre di nebbia così fitta da non potersi tagliare neppure con il coltello.
L’avevo incoraggiata, per scaldarci e tirarci un po’ su di morale, a prendere lo sherry dalla dispensa per farci un bicchierino. O due.
S’era lasciata pregare giusto un minimo, poi il dolce liquore aveva fatto il resto. Certo, l’aiutino messo nel bicchiere di Mrs. Whitecap aveva funzionato a dovere. Finnegans m’aveva prescritto un medicamento che aiutasse il sonno e alleviasse i forti mal di testa cui andavo periodicamente soggetta dopo la caduta. Una parte del medicamento l’avevo consumata davvero, ma avevo trattenuto qualche grammo di polvere in vista dell’occasione propizia.
* * *
Correvo, correvo e correvo. A perdifiato, leggera come un essere inconsistente, d’ombra e fumo. La nebbia avvolgeva il sentiero delle Siepi Oscure e, più vacuo della bruma stessa, il panorama in lontananza emergeva a chiazze dal viale, quando la nebbia sfioccava in nuvole basse pronte a solleticare le caviglie d’umido e freddo. Sfrecciavo, libera e lieve, ma mi resi conto d’un tratto che la corsa proseguiva troppo a lungo, che ero stanca.
Non facevo altro che correre in quel tunnel di rami e foschia, senza sbocco.
In un angolo della mia mente riapparve uno squarcio del passato, il mio passato, che per quei luoghi era invece un futuro remoto.
Il viale, ora, doveva essere molto più lungo: i faggi all’epoca della prima piantumazione erano centocinquanta, dal tempo in cui arrivavo io ne erano sopravvissuti un centinaio scarso. Mi fermai a riprendere fiato, e vidi che qualcosa percorreva il viale in direzione contraria. Una sagoma grigia, poco più concreta della nebbia stessa. Pareva un daino al galoppo.
Un animale sperso e affranto saltava per trovare riparo dietro al colonnato di faggi, appariva, si nascondeva, riappariva, scompariva di nuovo. Seguii con lo sguardo l’ombra grigia, temendo che il grosso animale selvatico fosse pronto a caricarmi da un momento all’altro.
L’unico scampo era dietro uno dei tronchi, al tempo stesso anche luogo più pericoloso dove cercar riparo: lì mi sarei trovata proprio sulla traiettoria percorsa dalla creatura su e giù, senza requie.
Stavo così ragionando che me la trovai d’un tratto dinanzi.
Non era un animale, era una donna, sbucata dal nulla.
Abbigliata di grigio, una mantella pesante sulle spalle, i piedi avvolti nella nebbia. Pareva galleggiare, sospesa nell’aria.
La cosa più spaventosa, la sua espressione. Un viso d’un pallore mortale, orbite scavate e un volto scarno come se la pelle, tirata allo spasimo, ricoprisse direttamente il teschio. Negli occhi un bagliore che andava accendendosi e spegnendosi, come il riverbero d’una fiaccola.
Ci scrutammo per un lungo istante.
M’avvolse la stessa vertigine di quando ci si sporge troppo su un abisso.
«Tu non sei Margaret» disse la Dama in Grigio con un tono quieto ma una convinzione che non ammetteva repliche. Era sinistramente buffo, pensai, che l’unica ad aver intuito la mia verità fosse qualcuno da cui desiderassi scappare a gambe levate.
«Tu non appartieni a Gracehill House, come non v’appartengo più nemmeno io». Del colore della voce non si sarebbe potuto dire neppure se fosse maschile o femminile.
Qualcosa in quel timbro però faceva accapponare la pelle. Deglutii a vuoto.
«Devi andartene, subito. Costi quel che costi» la donna riprese fiato per un attimo, e proseguì, «vattene. Lui vuole farti prigioniera, ti terrà relegata dopo essersi appropriato d’ogni tuo bene. Finirai i tuoi giorni in una soffitta chiusa a chiave, le tue grida di disperazione verranno fatte passare per pazzia. Torna indietro. Cerca una maglia rotta nella rete che ci stringe, tu balza fuori, fuggi!» la creatura diede anch’essa un balzo improvviso come per assalirmi. Invece d’incanto sparì alla vista, si dileguò al pari d’un miraggio.
Retrocedetti di qualche passo, pochi dapprima, infine mi voltai e mi misi a correre a perdifiato verso Gracehill House.
La risposta non si trovava al di fuori della dimora. Sentivo che l’avvertimento era sincero e che, anzi, più mi fossi allontanata dalla residenza degli Stuart più mi sarebbe stato difficile ritrovare la mia strada.
Mi precipitai in stanza boccheggiando, gli occhi fuori dalle orbite.
Mi svestii e mi rintanai sotto le coltri, il braccio aggrappato al cuscino, la testa al riparo delle coperte. Mi maledissi per aver consumato l’ultimo grammo di sonnifero; Mrs. Whitecap intanto sonnecchiava su una sedia nelle cucine, davanti a una bottiglia vuota di sherry.
Mi dibattei tutta notte, un coro infernale di urla mi rimbalzava nel cervello: le grida di tutti i personaggi negletti e dimenticati, che si sgolavano dalle pagine dei romanzi letti: pallidi fantasmi, simulacri del mio svago d’un tempo.
Tutte quelle storie in cui una donna è tenuta rinchiusa in una stanza, in cima a una torre, e la povera pazza in soffitta urla, si dimena, e le sue grida si perdono nel vuoto…
Un pensiero mi devastava.
E se in ogni Bertha Mason, in ogni Rebecca de Winter, in ogni Beate Rosmer si nascondesse il riferimento a una sventurata come me? Una poveraccia rimasta impigliata nella matassa del Tempo, che per crearsi un varco e scappare s’è fracassata le meningi contro il patriarcato?
Quel pensiero non mi dava pace.
Nessuno s’accorse della mia escursione notturna, solo Mrs. Whitecap ebbe qualche sospetto ma si guardò bene dall’esternarlo.
Mi riammalai un’altra volta. La febbre mi spossò oltre ogni dire, purtroppo mancavano rimedi degni di tale nome. Finnegans non si spiegava la ricaduta. Mio padre tornò ad angosciarsi, Benjamin si ripresentò al mio capezzale.
In preda al delirio vedevo incombere su di me una ridda di maschere grottesche, a volte l’espressione beffarda di Benjamin, a volte il ghigno di Francine. Inabissata nel mio torpore e nell’altalenante incoscienza, in uno sprazzo di lucidità li sentii confabulare dietro un paravento.
Intesi poco, ma mi parve di cogliere “affrettare le nozze” “sistemeremo tutto” e “rinchiusa”.
Ero sempre più impaniata in un intrico e di quel groviglio avevo perso il bandolo. Qualcun altro lo reggeva, e poteva tirare il filo fatale da un momento all’altro. Non c’era tempo da perdere, dovevo trovare una via d’uscita, fosse anche una fuga nell’accezione più definitiva del termine.
* * *
Da quando mi sono ristabilita e tornata a casa tutti mi chiedono della mia “vacanza” in Irlanda. Le impressioni, lo stato d’animo. Se ho avuto paura, se ancora adesso debba contrastare qualche strascico dell’incidente riportato. Non faccio altro che dire a tutti: sto bene, l’Irlanda è stupenda. Ribadisco a chi mi viene a trovare che sì, per miracolo l’albero schiantatosi alle mie spalle mi ha risparmiato, limitandosi a un’energica carezza con uno dei rami. La carezza, mi hanno raccontato poi, m’è costata un paio di mesi di coma in un nosocomio della contea di Antrim.
A tutti taccio invece del mio volo dall’abbaino di Gracehill House, il tuffo che mi ha permesso di scampare alle nozze con Benjamin.
Da quel tuffo sono riemersa in un letto d’ospedale, circondata da colleghi di Finnegans più giovani e più esperti di lui di qualche centinaio d’anni.
Provo nostalgia se ripenso a Lord Stuart, quel signore buono dagli occhi tristi, e alla solerte, premurosa Mrs. Whitecap.
Persino la voce chioccia di Finnegans, a tratti, mi manca.
Non mi chiedo quanto dolore abbia loro inflitto gettandomi dal tetto di Gracehill, unico stratagemma che la mia povera mente provata da tanti fatti bizzarri sia riuscita a concepire per sbrogliare la matassa.
Solo una cosa m’affligge. Non l’incertezza della convalescenza, non il timore di trovarmi di fronte qualcuno dei miei nemici: l’infermiera del reparto in cui mi sono risvegliata rassomigliava talmente a Francine…
Ciò che mi tormenta è un interrogativo pressante, doloroso.
Io posso esser stata due mesi nei panni della bionda e delicata Margaret, aver preso il suo corpo, il suo posto a Gracehill House.
Questo ormai l’ho accettato. Ma mentre vivevo al posto suo, in casa sua, fra le persone della sua vita, lei, lei dov’è stata in tutto questo tempo?
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