"La strada era segnata da marciapiedi sconnessi e abbrustoliti dal sole intervallati da sottili alberelli asfittici. I vecchi palazzi si erano adagiati sulle proprie fondamenta percorsi da crepe che correvano come brutte cicatrici sulle facciate scolorite. Una delle poche insegne visibile nelle lunghe sere buie era quella del bar del circolo l’unico rimasto aperto. Attirava zanzare e bevitori come un faro nella nebbia. Il gestore Carlo, detto Carlin, era l’essenza stessa del quartiere il testimone di tante storie e tanti cambiamenti storti o dritti che fossero. Alto, dinoccolato, con la testa a pera sormontata da un riporto a sinistra sempre più rado e sempre più grigio, era un sopravvissuto alla globalizzazione e al politically correct. Era l’ultimo baluardo spirituale di quella triste periferia nel vero senso della parola. L’interno del bar si presentava con pochi tavoli in formica e un bancone tarlato che correva lungo tutta la parete di fondo fino ad una porta sormontata da una scritta arcaica ma funzionale: Cesso, nel quale ben pochi avevano avuto il coraggio di avventurarsi. Non senza l’antitetanica almeno..."